- RICCARDO BANFI
HO CHIAMATO SOLO PER DIRTI CHE TI AMO
Per il progetto espositivo Ho chiamato solo per dirti che ti amo, Riccardo Banfi ha agito nelle stanze della storica dimora di Palazzo Brancadoro a Fermo come un rabdomante. Nel suo orizzonte, però, non si prefiguravano ipotetiche vene sotterranee di acqua o metalli (!), bensì la ricerca quasi ossessiva di una rete di sguardi: una postura dove la sua visione, e quella di chi osserva, fosse guidata e scandita da un ritmo accurato che qui si è inserito in un flusso domestico e caldo, ricco di storie e ricordi che lui ha abbracciato ed interpretato con grande sensibilità verso il luogo ospitante.
Le fotografie in mostra – scattate tra il 2016 e il 2022 in città diverse e tra loro distanti – fanno parte, insieme ad altre, dell’omonima pubblicazione in corso d’opera. Nella loro “maniera”, tono e aspetto, queste immagini si potrebbero intendere come essenze individuali, corpi singoli che al contempo agiscono in una possibilità di rapporti aperti al contesto che esse abitano, sia questo uno spazio fisico o le pagine di un libro. La catena di rimandi e di prossimità nella quale si inseriscono gli scatti scandisce poi una reciproca “relazione affettiva”, per usare le parole di Riccardo. E questo aspetto assume una carica ancora più intensa se si attraversano le stanze del Palazzo, oggi abitate e agite da corpi che toccano, guardano, sentono. E se, come nel volume in lavorazione, alcune immagini in mostra “esplicitano l’anatomia di un’esplosione come inizio di nuove storie”, continua Riccardo, altre servono qui a rallentare e sospendere la narrazione, fungendo da ganci visivi, attese e respiri.
“La nostra epoca, nel suo flusso continuo di messaggi, è come ossessionata dall’idea che possano esistere dei tempi morti, delle cesure nel continuum dell’esistenza, delle pagine bianche, delle parole sospese. Ritrovare l’intervallo, la pausa, nel concatenarsi delle immagini, è forse questo il primo gesto da compiere per riappropriarsi dello sguardo, rendendo giustizia alle immagini, rendendo alle immagini la loro capacità di essere giuste con il reale.” – Federico Ferrari
Questa riappropriazione è in parte evidente nel fare e nel procedere artistico di Riccardo. Il suo è un gesto che direziona lo sguardo, o meglio un orizzonte di possibili visioni, verso una sospensione, per ritrovare poi in questa battuta d’arresto un proprio ritmo nel quale si innesta quella concatenazione utile a scandire il passo e intavolare una narrazione. Anche il processo “tattile” e di “vicinanza fisica” che torna e prevale nella fase preparatoria di ogni progetto, ne è una testimonianza diretta. Riccardo infatti, piuttosto che procedere a schermo, preferisce stampare le immagini sulle quali lavora in formato circa 10×15 cm, per poi attaccarle, staccarle e riattaccarle all’interno di un moodboard a muro dove ogni singola fotografia entra in una lunga fase di editing emotivo, e a volte anche formale, e dove la condizione primaria di “intervallo” di ogni immagine è anteriore a qualsiasi altra sua attribuzione di valore narrativo.
Ma se abitare un luogo significa viverlo in una rete di azioni e reazioni, di risposte, stimoli ed influenze reciproche, ecco allora che la porzione di reale immortalata in questi scatti si apre inevitabilmente agli umori delle sale, a chi queste sale le sta percorrendo, e a chi ogni giorno le vive al cambiare della luce d’inverno. Riccardo ha deciso di abitare questi spazi con dei paesaggi e dei ritratti, ai quali si aggiungono una serie di close-up di fiori, corpi, elementi naturali e meccanici che convivono con le opere e gli arredi del Palazzo, instaurando un dialogo a volte più evidente, altre volte più celato, con il carattere di ogni stanza.
Un’ampia veduta apre Ho chiamato solo per dirti che ti amo. Posizionata quasi frontalmente rispetto alla porta di ingresso, Bathers (2016) è stata scattata nelle Bocche di Cattaro, una serie di insenature della costa dalmata meridionale del mare Adriatico, in Montenegro. Affascinato dall’impianto pittorico e da come spesso esso riprenda la tradizione dei bagnanti (visibile nel gruppo dei tre ragazzi a destra), Riccardo ha qui indagato un’idea di paesaggio in cui la presenza umana è in grado di “attivare” precise dinamiche relazionali e di costruzione formale dell’immagine. Questa fotografia la si ritrova anche in città sotto forma di billboard, a testimoniare come un cartellone pubblicitario possa essere un elemento in grado di attirare la nostra attenzione, sublimando il soggetto raffigurato, e fungere al contempo da “intervento” paesaggistico che interferisce con ciò che sta attorno.
Nella stessa stanza, Boys (2022) immortala Untitled, una scultura forgiata da un unico blocco di marmo di due ragazzi che si abbracciano, realizzata da Martinho Félix de Brito nel 1963 e oggi al Parco Eduardo VII di Lisbona, mentre con Holding Hands #01 (2021) siamo in Croazia, d’estate, dove un ramoscello aggrappato a una piccola porzione di roccia la trattiene prima che questa rischi di cadere a terra. Staccandosi dalla profondità di Bathers, questi due scatti si sfiorano intimamente come se fossero il “prima” e il “dopo” di una storia che qui non ci è data sapere, in un comune sentimento di affetto e di cura reciproca che identifichiamo come universale nella sua spontanea naturalità.
Il percorso prosegue nel salotto con quattro scatti che si inseriscono vivacemente nell’atmosfera di questa ampia stanza, valorizzandone altresì gli arredi e le opere presenti. Se con Ballarat #01 (2019) la carcassa di un veicolo ritrovata in una ghost town lungo la tratta che va da Los Angeles alla Death Valley è talmente scomposta da renderne quasi indistinguibili le parti, come in una sorta di tumbleweed industriale e meccanico, in Pasqua (2020) subentra la dimensione casalinga di un momento di condivisione giocoso e creativo dove la vicinanza familiare era l’unica forma di evasione e di contatto che ci era concessa nel periodo pandemico. Le due immagini comunicano attraverso un contrasto formale e di sensibilità tattile, tra un sentimento di fine o abbandono e uno di rinascita. Nella parete a destra della porta che dà accesso alla sala successiva, due zampe blu di un cane da caccia interrompono verticalmente una serie di stampe con soggetti femminili. Blue paws (2020) crea uno stacco, accelera il respiro dentro una pausa voluta, e come tale ci restituisce quella “capacità di essere giusta con il reale”, aprendo lo sguardo verso Elena (2017), la nipotina di Riccardo qui alle prese con un dolce gattonare all’età di circa un anno, mentre fissa l’obiettivo curiosa e inerme.
Nel salone da ballo, probabilmente restaurato e arricchito nei primi decenni del Novecento, Dancing in outer space (2019) regna invece in solitaria in un ambiente già ricco di affreschi e decori. Posizionata su una consolle in marmo, la verticalità che guida lo sguardo verso le disco balls in un club di Los Angeles è ulteriormente accentuata dai due specchi laterali che ne amplificano la portata simbolica e l’atmosfera liberatoria tipica del ballo che da sempre ha connotato la funzione di questa sala, nella quale ora si svolgono anche dei concerti di musica classica e pianoforte. Immagine di chiusura della pubblicazione, a simboleggiare un nuovo inizio, Dancing in outer space instaura un rapporto dialogico e paritario con l’ambiente che la ospita, “espandendosi” in ogni direzione.
Nell’adiacente sala verde, così chiamata in riferimento alle sete verdi che ne rivestono i muri, Riccardo è intervenuto su tutte e quattro le pareti. Ai rispettivi lati di una credenza, due scatti fluttuano in bilico in una dimensione leggera, al limite tra persistenza e fugacità. Le due maschere prostetiche in silicone di Crash (2017) sembrano infatti fondersi l’una con l’altra: estremità tremanti di visi mancanti che raggiungono il colmo della loro esposizione in quello che pare essere un bacio celato. Il filo di una ragnatela fotografato in un cantiere navale sull’isola della Giudecca si mostra invece nella sua più rigorosa composizione architettonica. Spiderweb (2017) imbastisce il tempo, lo scandisce, aggrappandosi con intensità straordinaria ad un vecchio armadietto per riporre vestiti e scarpe.
Flowers (2020), scattata in un piccolo edificio in un cimitero di Berlino, apre all’ambiente esterno tramite il doppio rimando tra le finestre della stanza (dove è collocata) e quella che si scorge lateralmente nel taglio dell’immagine. La natura è qui presente come composizione floreale, ma “entra” anche come elemento incontrollabile: un’edera sembra infatti impossessarsi della parete esterna di questo stabile semi-abbandonato. Appoggiato nella credenza, con Barbed wire (2020) torniamo in California, nel parco di sculture “Bottle Tree
Ranch” dell’artista Elmer Long, punto di riferimento sulla Route 66, vicino a Oro Grande, nel deserto del Mojave.
Un frutto della passione, probabilmente cresciuto in mezzo alla rete che separa il parco dall’adiacente parcheggio, è ancorato alla grata, plasmato nella sua forma da questa struttura che l’ha intrappolato e inglobato nel suo reticolatosin dal principio, a dimostrazione di come si dipenda sempre e disperatamente da una serie di riferimenti spaziali e architettonici. Scattata al Parco Sempione di Milano, Torso (2016) chiude la mostra, spingendosi muscolarmente e con energia verso l’alto, dove spicca un ampio soffitto affrescato che raffigura Dante che cavalca un grifone, tenendo in mano una cetra.
Punteggiano il percorso espositivo delle piccole fotografie inserite nelle cornici di casa e collocate sul mobilio nelle varie stanze: ritratti e paesaggi che ritmano lo spazio come una grammatica visiva che silenziosa si è impossessata temporaneamente di queste fessure, sostituendole con ricordi che alimentano un flusso di storie già vissute, sovrascritte e desiderate.
Infine, a intervalli regolari, aleggia nell’appartamento il ritornello di “I Just Called to Say I Love You” di Stevie Wonder, intonato da una voce femminile:
“I just called to say I love you
I just called to say how much I care
I just called to say I love you
And I mean it from the bottom of my heart”
Giovanna Manzotti
Per il progetto espositivo Ho chiamato solo per dirti che ti amo, Riccardo Banfi ha agito nelle stanze della storica dimora di Palazzo Brancadoro a Fermo come un rabdomante. Nel suo orizzonte, però, non si prefiguravano ipotetiche vene sotterranee di acqua o metalli (!), bensì la ricerca quasi ossessiva di una rete di sguardi: una postura dove la sua visione, e quella di chi osserva, fosse guidata e scandita da un ritmo accurato che qui si è inserito in un flusso domestico e caldo, ricco di storie e ricordi che lui ha abbracciato ed interpretato con grande sensibilità verso il luogo ospitante.
Le fotografie in mostra – scattate tra il 2016 e il 2022 in città diverse e tra loro distanti – fanno parte, insieme ad altre, dell’omonima pubblicazione in corso d’opera. Nella loro “maniera”, tono e aspetto, queste immagini si potrebbero intendere come essenze individuali, corpi singoli che al contempo agiscono in una possibilità di rapporti aperti al contesto che esse abitano, sia questo uno spazio fisico o le pagine di un libro. La catena di rimandi e di prossimità nella quale si inseriscono gli scatti scandisce poi una reciproca “relazione affettiva”, per usare le parole di Riccardo. E questo aspetto assume una carica ancora più intensa se si attraversano le stanze del Palazzo, oggi abitate e agite da corpi che toccano, guardano, sentono. E se, come nel volume in lavorazione, alcune immagini in mostra “esplicitano l’anatomia di un’esplosione come inizio di nuove storie”, continua Riccardo, altre servono qui a rallentare e sospendere la narrazione, fungendo da ganci visivi, attese e respiri.
“La nostra epoca, nel suo flusso continuo di messaggi, è come ossessionata dall’idea che possano esistere dei tempi morti, delle cesure nel continuum dell’esistenza, delle pagine bianche, delle parole sospese. Ritrovare l’intervallo, la pausa, nel concatenarsi delle immagini, è forse questo il primo gesto da compiere per riappropriarsi dello sguardo, rendendo giustizia alle immagini, rendendo alle immagini la loro capacità di essere giuste con il reale.” – Federico Ferrari
Questa riappropriazione è in parte evidente nel fare e nel procedere artistico di Riccardo. Il suo è un gesto che direziona lo sguardo, o meglio un orizzonte di possibili visioni, verso una sospensione, per ritrovare poi in questa battuta d’arresto un proprio ritmo nel quale si innesta quella concatenazione utile a scandire il passo e intavolare una narrazione. Anche il processo “tattile” e di “vicinanza fisica” che torna e prevale nella fase preparatoria di ogni progetto, ne è una testimonianza diretta. Riccardo infatti, piuttosto che procedere a schermo, preferisce stampare le immagini sulle quali lavora in formato circa 10×15 cm, per poi attaccarle, staccarle e riattaccarle all’interno di un moodboard a muro dove ogni singola fotografia entra in una lunga fase di editing emotivo, e a volte anche formale, e dove la condizione primaria di “intervallo” di ogni immagine è anteriore a qualsiasi altra sua attribuzione di valore narrativo.
Ma se abitare un luogo significa viverlo in una rete di azioni e reazioni, di risposte, stimoli ed influenze reciproche, ecco allora che la porzione di reale immortalata in questi scatti si apre inevitabilmente agli umori delle sale, a chi queste sale le sta percorrendo, e a chi ogni giorno le vive al cambiare della luce d’inverno. Riccardo ha deciso di abitare questi spazi con dei paesaggi e dei ritratti, ai quali si aggiungono una serie di close-up di fiori, corpi, elementi naturali e meccanici che convivono con le opere e gli arredi del Palazzo, instaurando un dialogo a volte più evidente, altre volte più celato, con il carattere di ogni stanza.
Un’ampia veduta apre Ho chiamato solo per dirti che ti amo. Posizionata quasi frontalmente rispetto alla porta di ingresso, Bathers (2016) è stata scattata nelle Bocche di Cattaro, una serie di insenature della costa dalmata meridionale del mare Adriatico, in Montenegro. Affascinato dall’impianto pittorico e da come spesso esso riprenda la tradizione dei bagnanti (visibile nel gruppo dei tre ragazzi a destra), Riccardo ha qui indagato un’idea di paesaggio in cui la presenza umana è in grado di “attivare” precise dinamiche relazionali e di costruzione formale dell’immagine. Questa fotografia la si ritrova anche in città sotto forma di billboard, a testimoniare come un cartellone pubblicitario possa essere un elemento in grado di attirare la nostra attenzione, sublimando il soggetto raffigurato, e fungere al contempo da “intervento” paesaggistico che interferisce con ciò che sta attorno.
Nella stessa stanza, Boys (2022) immortala Untitled, una scultura forgiata da un unico blocco di marmo di due ragazzi che si abbracciano, realizzata da Martinho Félix de Brito nel 1963 e oggi al Parco Eduardo VII di Lisbona, mentre con Holding Hands #01 (2021) siamo in Croazia, d’estate, dove un ramoscello aggrappato a una piccola porzione di roccia la trattiene prima che questa rischi di cadere a terra. Staccandosi dalla profondità di Bathers, questi due scatti si sfiorano intimamente come se fossero il “prima” e il “dopo” di una storia che qui non ci è data sapere, in un comune sentimento di affetto e di cura reciproca che identifichiamo come universale nella sua spontanea naturalità.
Il percorso prosegue nel salotto con quattro scatti che si inseriscono vivacemente nell’atmosfera di questa ampia stanza, valorizzandone altresì gli arredi e le opere presenti. Se con Ballarat #01 (2019) la carcassa di un veicolo ritrovata in una ghost town lungo la tratta che va da Los Angeles alla Death Valley è talmente scomposta da renderne quasi indistinguibili le parti, come in una sorta di tumbleweed industriale e meccanico, in Pasqua (2020) subentra la dimensione casalinga di un momento di condivisione giocoso e creativo dove la vicinanza familiare era l’unica forma di evasione e di contatto che ci era concessa nel periodo pandemico. Le due immagini comunicano attraverso un contrasto formale e di sensibilità tattile, tra un sentimento di fine o abbandono e uno di rinascita. Nella parete a destra della porta che dà accesso alla sala successiva, due zampe blu di un cane da caccia interrompono verticalmente una serie di stampe con soggetti femminili. Blue paws (2020) crea uno stacco, accelera il respiro dentro una pausa voluta, e come tale ci restituisce quella “capacità di essere giusta con il reale”, aprendo lo sguardo verso Elena (2017), la nipotina di Riccardo qui alle prese con un dolce gattonare all’età di circa un anno, mentre fissa l’obiettivo curiosa e inerme.
Nel salone da ballo, probabilmente restaurato e arricchito nei primi decenni del Novecento, Dancing in outer space (2019) regna invece in solitaria in un ambiente già ricco di affreschi e decori. Posizionata su una consolle in marmo, la verticalità che guida lo sguardo verso le disco balls in un club di Los Angeles è ulteriormente accentuata dai due specchi laterali che ne amplificano la portata simbolica e l’atmosfera liberatoria tipica del ballo che da sempre ha connotato la funzione di questa sala, nella quale ora si svolgono anche dei concerti di musica classica e pianoforte. Immagine di chiusura della pubblicazione, a simboleggiare un nuovo inizio, Dancing in outer space instaura un rapporto dialogico e paritario con l’ambiente che la ospita, “espandendosi” in ogni direzione.
Nell’adiacente sala verde, così chiamata in riferimento alle sete verdi che ne rivestono i muri, Riccardo è intervenuto su tutte e quattro le pareti. Ai rispettivi lati di una credenza, due scatti fluttuano in bilico in una dimensione leggera, al limite tra persistenza e fugacità. Le due maschere prostetiche in silicone di Crash (2017) sembrano infatti fondersi l’una con l’altra: estremità tremanti di visi mancanti che raggiungono il colmo della loro esposizione in quello che pare essere un bacio celato. Il filo di una ragnatela fotografato in un cantiere navale sull’isola della Giudecca si mostra invece nella sua più rigorosa composizione architettonica. Spiderweb (2017) imbastisce il tempo, lo scandisce, aggrappandosi con intensità straordinaria ad un vecchio armadietto per riporre vestiti e scarpe.
Flowers (2020), scattata in un piccolo edificio in un cimitero di Berlino, apre all’ambiente esterno tramite il doppio rimando tra le finestre della stanza (dove è collocata) e quella che si scorge lateralmente nel taglio dell’immagine. La natura è qui presente come composizione floreale, ma “entra” anche come elemento incontrollabile: un’edera sembra infatti impossessarsi della parete esterna di questo stabile semi-abbandonato. Appoggiato nella credenza, con Barbed wire (2020) torniamo in California, nel parco di sculture “Bottle Tree
Ranch” dell’artista Elmer Long, punto di riferimento sulla Route 66, vicino a Oro Grande, nel deserto del Mojave.
Un frutto della passione, probabilmente cresciuto in mezzo alla rete che separa il parco dall’adiacente parcheggio, è ancorato alla grata, plasmato nella sua forma da questa struttura che l’ha intrappolato e inglobato nel suo reticolatosin dal principio, a dimostrazione di come si dipenda sempre e disperatamente da una serie di riferimenti spaziali e architettonici. Scattata al Parco Sempione di Milano, Torso (2016) chiude la mostra, spingendosi muscolarmente e con energia verso l’alto, dove spicca un ampio soffitto affrescato che raffigura Dante che cavalca un grifone, tenendo in mano una cetra.
Punteggiano il percorso espositivo delle piccole fotografie inserite nelle cornici di casa e collocate sul mobilio nelle varie stanze: ritratti e paesaggi che ritmano lo spazio come una grammatica visiva che silenziosa si è impossessata temporaneamente di queste fessure, sostituendole con ricordi che alimentano un flusso di storie già vissute, sovrascritte e desiderate.
Infine, a intervalli regolari, aleggia nell’appartamento il ritornello di “I Just Called to Say I Love You” di Stevie Wonder, intonato da una voce femminile:
“I just called to say I love you
I just called to say how much I care
I just called to say I love you
And I mean it from the bottom of my heart”
Giovanna Manzotti
- RICCARDO BANFI, Installation view Ho chiamato solo per dirti che ti amo at Palazzo Matteucci, Fermo, ph. Alessio Beato
- RICCARDO BANFI, Installation view Ho chiamato solo per dirti che ti amo at Palazzo Matteucci, Fermo, ph. Alessio Beato
- RICCARDO BANFI, Installation view Ho chiamato solo per dirti che ti amo at Palazzo Matteucci, Fermo, ph. Alessio Beato
- RICCARDO BANFI, Installation view Ho chiamato solo per dirti che ti amo at Palazzo Matteucci, Fermo, ph. Alessio Beato
- RICCARDO BANFI, Installation view Ho chiamato solo per dirti che ti amo at Palazzo Matteucci, Fermo, ph. Alessio Beato
- RICCARDO BANFI, Installation view Ho chiamato solo per dirti che ti amo at Palazzo Matteucci, Fermo, ph. Alessio Beato
- RICCARDO BANFI, Installation view Ho chiamato solo per dirti che ti amo at Palazzo Matteucci, Fermo, ph. Alessio Beato
- RICCARDO BANFI, Installation view Ho chiamato solo per dirti che ti amo at Palazzo Matteucci, Fermo, ph. Alessio Beato
- RICCARDO BANFI, Installation view Ho chiamato solo per dirti che ti amo at Palazzo Matteucci, Fermo, ph. Alessio Beato
- RICCARDO BANFI, Installation view Ho chiamato solo per dirti che ti amo at Palazzo Matteucci, Fermo, ph. Alessio Beato
- RICCARDO BANFI, Installation view Ho chiamato solo per dirti che ti amo at Palazzo Matteucci, Fermo, ph. Alessio Beato
La pratica fotografica di Riccardo Banfi (b. 1986, Milano) si è consolidata attorno al tema del club e nella sua totalità si lega alla natura esplorativa dello sguardo nell’individuazione di attimi anonimi o di inaspettate epifanie che si celano potenzialmente in ogni luogo. Documentando il quotidiano, Banfi crea un corpus di opere diverse che combinano elementi figurativi e astratti, nonché prospettive biografiche e documentaristiche, offrendo una rappresentazione del mondo contemporaneo che è allo stesso tempo personale e universale.
Il lavoro di Banfi è stato presentato in istituzioni e festival internazionali come COLLI e Museo delle Mura (Roma); Fonderia Artistica Battaglia e Conversation Piece (Milano); Fondazione Bevilacqua La Masa, Casa dei Tre Oci e Serra dei Giardini (Venezia); CNEAI (Parigi); Agora (Berlino); Fotomuseum Winterthur (Winterthur); Assam State Museum (Guwahati); Loop (Barcellona); Landskrona Foto Festival (Landskrona). Nel 2015 ha pubblicato “Tnx”, il suo primo libro fotografico. Nel 2020 ha pubblicato “Sunshine Noir”, un’indagine che riassume e combina i nume- rosi antipodi che formano la topografia fisica ed emozionale di Los Angeles, ed è stato uno dei finalisti del Premio Francesco Fabbri per le Arti Contemporanee (Treviso).

- LUCIA LEUCI

- IRENE FENARA