- HELENA HLADILOVÁ
INUA
Il tempo possente
imperversa nella mia anima,
e io tremo.
Ossa sbiancate!
Scheletro asciugato al vento
nel vento si sgretola!
Nel 1994 esce Chansons des meres froides del compositore e musicista Hector Zazou, un artista che ha collaborato, tra i tantissimi altri, anche con David Sylvian e Ryuchi Sakamoto. Quando, all’inizio degli anni ’90, si recò dalla Sony Records aveva solo il tito- lo e un’idea: andare al Nord, un luogo musicalmente inesplorato “The music of the South — the Caribbean, Brazil, Africa — has been done to death, so the only place to go was North”. Il risultato fu un disco potentissimo, ricco di sonorità inaspettate e dense, non solo genericamente prese ‘al Nord’ ma frutto di una ricerca che era entrata in dialogo con personalità lontane e discoste, pre- ferendo quelle che raccontavano storie e leggende, che contenevano la natura degli abitanti dei mari del Nord. Ci sono canti-leg- gende esotici, ninne-nanne dei misteriosi Ainu dell’isola di Hokkaido, degli Inut dell’Isola di Buffin in Canada, i respiri-canti e le percussioni degli sciamani Yakuti della Sibera, i canti joik dei Sami (popolazione dell’area della Lapponia) e la musica da paesi più familiari come Finlandia, Islanda (Bijork che canta nella sua lingua natale), Groenlandia, Svezia, Irlanda. Il respiro-canto dalla gola che viene eseguito dagli sciamani e il chiamarsi e rispondersi senza parole degli Inuit che concludono l’album raggiungono un apice di senso pervasivo.
Non si tratta di un album di world music, è un lungo viaggio musicale, un progetto in cui i canti (non semplicemente raccolti in giro per i mari del nord, ma registrati dopo lunghi periodi di convivenza e conoscenza dei cantanti e della loro cultura, spesso in condizioni impensabili) sono stati lavorati, modificati e allacciati tra loro attraverso un ampio campionamento e trattamenti sonori operati da Zazou. Un album che produce paesaggi sonori elettronici e acustici che rendono il contesto animista, profondamente sensorio e misterico dei popoli aborigeni del Nord. Ascoltarlo tutto, più e più volte di seguito, permette di lasciarsi travolgere da sonorità continue e pervasive che immettono direttamente, grazie soprattutto al lavoro di sintetizzatori e campionature, nei riverberi delle atmosfere misteriche che, nella tradizione, hanno prodotto quei canti e quei suoni.
Per queste popolazioni tutto era spirito, tutto era animato: mondo umano, mondo della natura e mondo delle divinità erano uniti e in continuo scambio. Anche gli stati d’animo per loro erano incarnati dagli spiriti. Quello che hanno vissuto, fino alla fine dell’800 quando hanno avuto i primi contatti con i popoli del Sud, era un mondo vasto, isolato e in lento movimento. Immensità e biancore, lenti ma mastodontici spostamenti erano ciò che li circondava e che gli permetteva di intuire il sacro presente nelle cose del mondo, nell’esistere di queste cose nel mondo e nell’attività che queste hanno nel partecipare a esso. Secondo il pensiero animista di queste popolazioni, ogni cosa vibrava nella sfera terrestre secondo una propria energia sacra e una propria funzione, ogni piccolo oggetto aveva un significato, ogni spazio brulicava di segni del Tutto con cui si doveva convivere in equilibrio propiziatorio.
Gli Inuit credevano che ogni cosa fosse viva: pietre, slitte, arpioni, il ghiaccio che scricchiolava, le onde del mare e l’aria che respiravano. Ogni oggetto, animato e inanimato, aveva un’anima, la sua ‘inua’(1).
Per questa mostra Helena Hladilová ha realizzato una serie di nuove opere ispirate alla civiltà Inuit e ai manufatti presenti all’interno del Museo Polare Etnografico “Silvio Zavatti” di Fermo. Entrando nel racconto e nell’universo fantastico degli Inuit, l’artista si è lasciata incantare dalle credenze e dalle pratiche sciamaniche, riorganizzando materiali e simboli per creare dei soggetti ibridi. Per gli Inuit alcuni oggetti erano potentissimi, potevano far attraversare le profondità marine o salvare dall’annegamento ognuno
di loro. Zampe e piume di uccello – quelle del corvo, l’uccello più forte, che riesce a trovare di che sfamarsi anche in condizione estreme – spazzavano via malesseri e proteggevano dalla morte per fame. Le maschere e i teschi delle pulcinelle di mare, decorati con occhi artificiali, servivano nei rituali; gli amuleti venivano tenuti sempre con sé, dalle donne erano conservati anche tra i capelli. Tutte queste immagini sono servite a Hladilová per costruire le sculture che sono in mostra, disposte come strumenti sciamanici o presenti come spiriti dei luoghi naturali, che accompagnano l’esploratore che si lascia guidare dalla natura e ne segue i corsi e le indicazioni. Esili totem, figure ambigue e attonite come i kodama del Giappone arcaico o mascherate per confondersi con il mondo naturale, per sorprendere all’improvviso l’iniziato lungo il sentiero che si fa varco verso un mondo illusoriamente reale. L’immersione in queste immagini, sovrascritte dai segni dei neon che sono pezzetti di gesti e forme della particolare iconografia degli Inuit, crea uno spazio pervasivo, nel quale gli echi di vite antichissime, rianimate, ci sfiorano la pelle. I diversi tipi di pietra utilizzati dall’artista e il modo di modificarne la superficie segnano un richiamo ai poteri magici dei materiali inerti, alle loro possibili cariche di energia, che incontra la vita degli uomini per creare presenze fantasmiche ed evocative. Questa produzione conclude un anno di lavoro intenso per Hladilová, in cui tutta una serie di nuove immagini si sono susseguite formando un dialogo fluido e portentoso, producendo dei lavori linguisticamente ed esteticamente potenti e incantatori.
Matilde Galletti
1. Sam Hall, Viaggio alla scoperta della tradizione mitica, delle credenze folkloriche e delle pratiche animistico-sciamaniche delle popolazioni native dell’area artica, in Il quarto mondo. Il patrimonio dell’Artico e la sua distruzione, cap. 7, “Amuleti e Angakok”, Geo S.r.l., Milano, 1991. https://axismundi.blog/2018/11/15/ folklore-sciamanesimo-e-stregoneria-fra-gli-inuit-dellartico/
Il tempo possente
imperversa nella mia anima,
e io tremo.
Ossa sbiancate!
Scheletro asciugato al vento
nel vento si sgretola!
Nel 1994 esce Chansons des meres froides del compositore e musicista Hector Zazou, un artista che ha collaborato, tra i tantissimi altri, anche con David Sylvian e Ryuchi Sakamoto. Quando, all’inizio degli anni ’90, si recò dalla Sony Records aveva solo il tito- lo e un’idea: andare al Nord, un luogo musicalmente inesplorato “The music of the South — the Caribbean, Brazil, Africa — has been done to death, so the only place to go was North”. Il risultato fu un disco potentissimo, ricco di sonorità inaspettate e dense, non solo genericamente prese ‘al Nord’ ma frutto di una ricerca che era entrata in dialogo con personalità lontane e discoste, pre- ferendo quelle che raccontavano storie e leggende, che contenevano la natura degli abitanti dei mari del Nord. Ci sono canti-leg- gende esotici, ninne-nanne dei misteriosi Ainu dell’isola di Hokkaido, degli Inut dell’Isola di Buffin in Canada, i respiri-canti e le percussioni degli sciamani Yakuti della Sibera, i canti joik dei Sami (popolazione dell’area della Lapponia) e la musica da paesi più familiari come Finlandia, Islanda (Bijork che canta nella sua lingua natale), Groenlandia, Svezia, Irlanda. Il respiro-canto dalla gola che viene eseguito dagli sciamani e il chiamarsi e rispondersi senza parole degli Inuit che concludono l’album raggiungono un apice di senso pervasivo.
Non si tratta di un album di world music, è un lungo viaggio musicale, un progetto in cui i canti (non semplicemente raccolti in giro per i mari del nord, ma registrati dopo lunghi periodi di convivenza e conoscenza dei cantanti e della loro cultura, spesso in condizioni impensabili) sono stati lavorati, modificati e allacciati tra loro attraverso un ampio campionamento e trattamenti sonori operati da Zazou. Un album che produce paesaggi sonori elettronici e acustici che rendono il contesto animista, profondamente sensorio e misterico dei popoli aborigeni del Nord. Ascoltarlo tutto, più e più volte di seguito, permette di lasciarsi travolgere da sonorità continue e pervasive che immettono direttamente, grazie soprattutto al lavoro di sintetizzatori e campionature, nei riverberi delle atmosfere misteriche che, nella tradizione, hanno prodotto quei canti e quei suoni.
Per queste popolazioni tutto era spirito, tutto era animato: mondo umano, mondo della natura e mondo delle divinità erano uniti e in continuo scambio. Anche gli stati d’animo per loro erano incarnati dagli spiriti. Quello che hanno vissuto, fino alla fine dell’800 quando hanno avuto i primi contatti con i popoli del Sud, era un mondo vasto, isolato e in lento movimento. Immensità e biancore, lenti ma mastodontici spostamenti erano ciò che li circondava e che gli permetteva di intuire il sacro presente nelle cose del mondo, nell’esistere di queste cose nel mondo e nell’attività che queste hanno nel partecipare a esso. Secondo il pensiero animista di queste popolazioni, ogni cosa vibrava nella sfera terrestre secondo una propria energia sacra e una propria funzione, ogni piccolo oggetto aveva un significato, ogni spazio brulicava di segni del Tutto con cui si doveva convivere in equilibrio propiziatorio.
Gli Inuit credevano che ogni cosa fosse viva: pietre, slitte, arpioni, il ghiaccio che scricchiolava, le onde del mare e l’aria che respiravano. Ogni oggetto, animato e inanimato, aveva un’anima, la sua ‘inua’(1).
Per questa mostra Helena Hladilová ha realizzato una serie di nuove opere ispirate alla civiltà Inuit e ai manufatti presenti all’interno del Museo Polare Etnografico “Silvio Zavatti” di Fermo. Entrando nel racconto e nell’universo fantastico degli Inuit, l’artista si è lasciata incantare dalle credenze e dalle pratiche sciamaniche, riorganizzando materiali e simboli per creare dei soggetti ibridi. Per gli Inuit alcuni oggetti erano potentissimi, potevano far attraversare le profondità marine o salvare dall’annegamento ognuno
di loro. Zampe e piume di uccello – quelle del corvo, l’uccello più forte, che riesce a trovare di che sfamarsi anche in condizione estreme – spazzavano via malesseri e proteggevano dalla morte per fame. Le maschere e i teschi delle pulcinelle di mare, decorati con occhi artificiali, servivano nei rituali; gli amuleti venivano tenuti sempre con sé, dalle donne erano conservati anche tra i capelli. Tutte queste immagini sono servite a Hladilová per costruire le sculture che sono in mostra, disposte come strumenti sciamanici o presenti come spiriti dei luoghi naturali, che accompagnano l’esploratore che si lascia guidare dalla natura e ne segue i corsi e le indicazioni. Esili totem, figure ambigue e attonite come i kodama del Giappone arcaico o mascherate per confondersi con il mondo naturale, per sorprendere all’improvviso l’iniziato lungo il sentiero che si fa varco verso un mondo illusoriamente reale. L’immersione in queste immagini, sovrascritte dai segni dei neon che sono pezzetti di gesti e forme della particolare iconografia degli Inuit, crea uno spazio pervasivo, nel quale gli echi di vite antichissime, rianimate, ci sfiorano la pelle. I diversi tipi di pietra utilizzati dall’artista e il modo di modificarne la superficie segnano un richiamo ai poteri magici dei materiali inerti, alle loro possibili cariche di energia, che incontra la vita degli uomini per creare presenze fantasmiche ed evocative. Questa produzione conclude un anno di lavoro intenso per Hladilová, in cui tutta una serie di nuove immagini si sono susseguite formando un dialogo fluido e portentoso, producendo dei lavori linguisticamente ed esteticamente potenti e incantatori.
Matilde Galletti
1. Sam Hall, Viaggio alla scoperta della tradizione mitica, delle credenze folkloriche e delle pratiche animistico-sciamaniche delle popolazioni native dell’area artica, in Il quarto mondo. Il patrimonio dell’Artico e la sua distruzione, cap. 7, “Amuleti e Angakok”, Geo S.r.l., Milano, 1991. https://axismundi.blog/2018/11/15/ folklore-sciamanesimo-e-stregoneria-fra-gli-inuit-dellartico/
- Installation view Inua at Ex chiesa di Ognissanti, Fermo, ph. Alessio Beato
- Helena Hladilová, Makoktok, 2022 travertino, bronzo, marmo verde di Prato, onice rosso, acquerello, neon 85 x 20 x 5 cm. Courtesy SpazioA e l’artista, ph. Alessio Beato
- Installation view Inua at Ex chiesa di Ognissanti, Fermo, ph. Alessio Beato
- Installation view Inua at Ex chiesa di Ognissanti, Fermo, ph. Alessio Beato
- Installation view Inua at Ex chiesa di Ognissanti, Fermo, ph. Alessio Beato
- Helena Hladilová, Suluk, 2022 travertino, marmo bianco di Carrara, rame, marmo verde di Prato, acquerello, neon 85 x 50 x 20 cm. Courtesy SpazioA e l’artista, ph. Alessio Beato
- Installation view Inua at Ex chiesa di Ognissanti, Fermo, ph. Alessio Beato
- Helena Hladilová, Qopuk, 2022 marmo verde Guatemala, rosa Portogallo, Calacatta viola, neon 165 x 10 x 6 cm. Courtesy SpazioA e l’artista, ph. Alessio Beato
Helena Hladilová (1983 Kroměříž, CZ, vive e lavora in Toscana) ha studiato alla Facoltà di Belle arti della VUT University, Brno, all’Accade- mia di Belle Arti di Brera, Milano e all’Accademia di Belle Arti di Carrara. Nel 2008 ha co-fondato l’artist run space GUM Studio.
Hladilová ha esposto in importanti gallerie e istituzioni nazionali e internazionali come: SpazioA, Pistoia (2022), Almanac Inn, Torino (2021); Kleine Humboldt Galerie, Berlino, Germania (2018), 0smicka, Humpolec, Repubblica Ceca (2018), SVIT, Praga, Repubblica Ceca (2017), L’Ascensore, Palermo (2017), Treti Galaxy, Milano (2017), Polansky Gallery, Praga, Repubblica Ceca (2017), Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci, Prato (2017), American Academy, Roma (2016), National Gallery, Praga, Repubblica Ceca (2016), MAXXI, Roma (2015), Fanta Spazio, Milano (2015), MACRO, Roma (2014), GAM, Torino (2013), Fondazione Bevilacqua La Masa, Venezia (2012), Fondazione Antonio Ratti, Como (2012), Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Torino (2012). Ha preso parte alla 6th Prague Biennale, Repubblica Ceca (2013) and in Go West! – III Moscow International Biennale for Young Art al Muzeon Art Park in Moscow, Russia (2012).

- LUCIA LEUCI

- IRENE FENARA